Come monitorare lo stress ossidativo sui luoghi di lavoro

Il documento è stato redatto dal Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale dell’Inail.

Un nuovo Fact Sheet, una nuova scheda informativa prodotta dal Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale dell’ Inail, ricorda che l’esposizione all’inquinamento atmosferico, agli agenti chimici pericolosi, alle radiazioni, ad alcuni stili di vita (fumo, alcool, squilibri nutrizionali) e ad alcuni problemi e stati di salute (invecchiamento, infiammazioni, condizioni patologiche, uso di farmaci e radioterapia, …) possono “dar luogo a modificazioni ossidative delle basi degli acidi nucleici (DNA e RNA) generate da specie reattive dell’ossigeno (reactive oxygen species – ROS), e a modificazioni delle proteine, generate da specie reattive dell’azoto (reactive nitrogen species – RNS)”.

E ROS e RNS sono “associate all’invecchiamento cellulare, a malattie degenerativecardiovascolaridiabete e malattie tumorali, per la loro capacità di danneggiare macromolecole biologiche come DNA e RNA, proteine e lipidi alterando il metabolismo e la vitalità cellulare fino a indurre morte cellulare per necrosi o apoptosi, e causando un danno tissutale di tipo infiammatorio”.    

A segnalarlo è la scheda dal titolo “Biomarcatori urinari di stress ossidativo e il loro ruolo nel biomonitoraggio dell’esposizione ad agenti chimici pericolosi”, a cura di D. Pigini, E. Paci e G. Tranfo.

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L’esposizione ad agenti chimici pericolosi e lo stress ossidativo

Il fact sheet ricorda che lo stress ossidativo di cui si parla nella scheda è determinato da “uno squilibrio tra la produzione di ROS e di RNS e la capacità di difesa antiossidante e di riparazione del danno ossidativo da parte di un sistema biologico, che si traduce in un insieme di alterazioni nelle macromolecole biologiche, nelle cellule e nei tessuti”.

Infatti se in ogni individuo è “sempre presente un certo livello di danno ossidativo, a causa del metabolismo ossidativo prodotto dalla respirazione mitocondriale, la cui frequenza aumenta con l’esposizione ad agenti che generano specie reattive dell’ossigeno e dell’azoto”, gli effetti sono contrastati da sistemi di difesa che coinvolgono enzimi specializzati e antiossidanti.

In particolare “un corretto bilanciamento tra ossidanti ed antiossidanti è essenziale per le funzioni fisiologiche coinvolte nelle catene di traduzione intracellulare dei segnali (recettori, chinasi e fosfatasi, fattori di trascrizione)”: la differenza tra l’intensità nella formazione di ROS e RNS e l’efficacia della difesa antiossidante “è la causa della variabilità dello stato di stress ossidativo tra gli individui” ed è legata a molteplici fattori.

Si segnala poi che se “la misura diretta delle specie reattive e dei radicali liberi è impossibile a causa della loro instabilità e reattività”, per valutare i livelli di stress ossidativo “vengono utilizzati metodi in grado di identificare e misurare le alterazioni indotte su DNA, RNA, lipidi e proteine (biomarcatori di stress ossidativo)”. Ed esistono “metodi specifici e sensibili che permettono di analizzare queste alterazioni in un largo numero di campioni e sono essenziali per valutare gli effetti ossidativi precoci capaci di predire valori associati a malattie in sviluppo, legate all’esposizione lavorativa ad agenti chimici”.

Rimandiamo alla lettura integrale del documento che si sofferma sulle varie possibili alterazioni del DNA, RNA e proteine segnalando i vari possibili prodotti di ossidazione.

L’esposizione ad agenti chimici, le metodiche e il monitoraggio biologico

La scheda si sofferma poi sulle tecniche analitiche per la determinazione delle basi ossidate e della 3-nitrotirosina.

Infatti esistono diverse metodiche analitiche sufficientemente sensibili e specifiche per determinare le concentrazioni di 8-oxodGuo, 8-oxoGuo, 8-oxoGua e 3-NO2Tyr in differenti matrici biologiche come plasma, siero, urine, saliva, tessuto e condensato dell’aria espirata (EBC). Si tratta di tecniche quali cromatografia liquida accoppiata a detector elettrochimico (Electrochemical Detection, HPLC/ ECD), elettroforesi capillare con detector ultravioletto (Capillary electrophoresis Detection, CE/UV), gas cromatografia accoppiata ad uno spettrometro di massa (Gas chromatography–mass spectrometry, GC/MS), cromatografia liquida accoppiata ad uno spettrometro di massa a triplo quadrupolo (Liquid chromatography-mass spectrometry, HPLC-MS/MS), o tests immunoenzimatici (Enzyme-Linked Immuno Assay, ELISA)”. Sono poi riportati alcuni vantaggi e svantaggi di alcune tecniche.

Si parla poi di monitoraggio biologico, cioè della valutazione dell’esposizione a sostanze pericolose “attraverso la misura di biomarcatori, cioè la misura della concentrazione di una sostanza o dei suoi prodotti di trasformazione metabolica in compartimenti biologici eticamente raggiungibili o la misura di effetti biologici, precoci e reversibili, riferibili alla sostanza stessa”.

Come ricordato in altri articoli, il monitoraggio biologico “può aiutare a valutare l’entità dell’esposizione ma anche lo stato di salute in gruppi di popolazione generale o in contesti occupazionali, in modo complementare al monitoraggio ambientale”.

E i biomarcatori possono “essere:

  • biomarcatori di dose, specificatamente correlati alla dose di sostanza assorbita da un individuo, espressi come concentrazione in una particolare matrice, ad esempio sangue, urina o saliva;
  • biomarcatori di effetto, i quali identificano una alterazione biochimica o fisiologica precoce e reversibile, secondaria all’esposizione ad una sostanza pericolosa, misurabile in un tessuto o in un fluido corporeo;
  • biomarcatori di suscettibilità, che esprimono differenze individuali di origine genetica o acquisita della capacità di un organismo a rispondere all’esposizione ad una specifica sostanza”.

Gli indicatori di stress ossidativo, che appartengono ai biomarcatori di effetto, “pur non essendo specifici per una determinata sostanza, consentono di misurare l’effetto precoce e reversibile delle esposizioni professionali ad agenti chimici, anche in condizioni ritenute non pericolose, ad esempio quando i valori di esposizione dei lavoratori sono al di sotto dei limiti di esposizione professionale”.

Il documento riporta poi alcuni esempi, tratti dalla letteratura scientifica, relativamente alle conferme dell’associazione “fra l’esposizione ad agenti chimici pericolosi e l’escrezione urinaria di biomarcatori di stress ossidativo, confrontando i livelli misurati nei lavoratori professionalmente esposti con quelli riscontrati in individui della popolazione generale considerati come gruppi di controllo”.

Ad esempio l’escrezione di 8-oxodGuo (associata al danno ossidativo del DNA) “risulta significativamente aumentata negli addetti all’erogazione di carburanti per autotrazione, esposti a benzene, e nei lavoratori del comparto vetroresina, esposti a vapori di stirene, anche se i livelli espositivi sono inferiori ai valori limite di esposizione professionale (VLEP)”. Mentre l’escrezione di 3-NO2Tyr (associata al danno alle proteine), “benché questo indicatore sia meno studiato dei precedenti, risulta significativamente aumentata nei lavoratori esposti a benzene e metalli, e nei pazienti di malattie neurodegenerative quali morbo di Parkinson e Alzheimer”.

Gli agenti chimici e la valutazione degli effetti dell’esposizione lavorativa

In conclusione la scheda segnala che:

  • l’8-oxodGuo è “un biomarcatore di effetto utile per la valutazione di esposizioni professionali croniche a sostanze chimiche pericolose anche a basse dosi;
  • l’8-oxoGuo è “un indicatore sensibile nell’ esposizione anche a breve termine, come un turno di lavoro;
  • la 3-NO2Tyr è “un buon indicatore di effetto sia in ambito occupazionale che clinico”.

Dunque questi biomarcatori possono “essere utilizzati per valutare gli effetti dell’esposizione lavorativa ad agenti di rischio anche in condizioni di conformità con le norme sulla salute e sicurezza, e risultano particolarmente utili nella valutazione degli effetti dell’esposizione a miscele, per le quali non è possibile stabilire un valore limite di esposizione professionale”.

E la valutazione deve essere effettuata “confrontando i valori trovati in lavoratori esposti a sostanze pericolose con quelli di gruppi di controllo per identificare situazioni di rischio che potrebbero evolvere negativamente per la salute”.

Concludiamo rimandando alla lettura integrale della scheda Inail che riporta molti altri dettagli, altre immagini e alcune considerazioni sul contesto normativo e sul concetto di valore limite biologico.

Se, infatti, “non esiste, ad oggi, un valore limite biologico” nell’Allegato XXXIX del D.Lgs. 81/2008, la “normativa è in continuo aggiornamento, grazie all’emanazione e al recepimento di nuovi regolamenti e direttive europee, e comunque il medico competente deve fare sempre riferimento all’evoluzione delle conoscenze scientifiche”.    

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